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Il concerto


Luglio '88, il caldo umido e appiccicaticcio che si respirava in città non impediva a me ed ai miei quattro amici di ritrovarci ogni giorno nella stanzetta di casa mia a ridere, suonare e discutere per pomeriggi interi. Le discussioni convergevano tutte su un unico argomento e cioè il ritorno della nostra band preferita. D’accordo c’era stata la brutta storia della lite per il nome del gruppo e tutte le menate finite in Tribunale, ma alla fine erano tornati, erano di nuovo loro, con un nuovo album ed un nuovo tour mondiale.

E noi, che a furia di ascoltarli, avevamo letteralmente scavato solchi sui loro vinili, eravamo al tempo stesso felici per la reunion e perplessi per l'assenza di Waters, il leader e co-fondatore della band, colui che aveva praticamente scritto da solo The wall e The Final cut.

E così le nostre giornate di quella calda estate andavano avanti in discussioni infinite e fantasiose, aspettando solo che arrivasse l’11 luglio ed il nostro Concerto di Roma nel mitico stadio Flaminio.


Partimmo in treno: cinque zaini gonfi, cinque magliette rosse, cinque giovani teste, cariche di capelli e di sogni.

Cinque in uno scompartimento a cuccette, a godere di più all'idea del concerto che poi del concerto stesso. Arrivammo a Roma senza avere chiuso occhio per l'eccitazione, per l'allegria e per la nostra amicizia; certi che quei momenti l’avrebbero rinsaldata. Ci mettemmo subito a cercare casa di Piero, un nostro amico romano che ci avrebbe ospitati e, quando fummo nei pressi di casa sua, lo trovammo appoggiato sul cofano della veccia fiat uno di suo padre a fumare e ad atteggiarsi a grand'uomo come solo un ragazzino di 17 anni sa e può fare. Era impaziente di abbracciarci e raccontarci i suoi piccoli aneddoti romani, ma anche di ascoltare i nostri racconti, che però risultavano un po' più ingenui dei suoi, ed era felice nella sua allegra borgata di periferia, più simile ad un enorme paese dentro la città che ad un quartiere vero e proprio.

La prima sera a casa sua fu una festa, facemmo impazzire suo padre con il nostro chiasso e la nostra allegra e contagiosa voglia di non dormire, ma alla fine si mise a far baldoria anche lui, a ballare attorno al tavolo del piccolo soggiorno.

E passò velocemente dall'incazzatissimo urlo di -ragazzi io volevo dormi’! - all'allegro canto di -ma che c'è frega ma che ce 'mporta- con un bicchiere di vino rosso in mano, la sigaretta tra i denti e gli occhi rivolti al cielo manco avesse visto la madonna.

Credo di non aver riso mai più così tanto in vita mia.

Quando il giorno dopo, verso sera, ci avviammo verso lo stadio, il padre di Piero era dispiaciuto di vederci andar via, salimmo sul bus e dal lunotto posteriore lo vidi piccolo, sempre più piccolo dentro la sua canottiera bianca e con l'immancabile sigaretta. Provai una grande tristezza, ricordo che chiesi a Piero di portarlo con noi, ma capii dal suo sguardo che non aveva apprezzato la mia richiesta e mi disse: nun spara' cazzate, ce manca solo er vecchio ... e poi nun c'ha er biglietto.

Avrei voluto dirgli che aveva 50 anni, non era un vecchio e che il biglietto avremmo potuto recuperarlo da un qualunque bagarino nei pressi dello stadio, ma non dissi nulla.


Durante il tragitto il mio sguardo si posò sull'antica strada dei Fori imperiali, costruita quando Roma era la capitale del mondo; e sul Colosseo, dove duemila anni prima uomini e donne accorrevano per vedere altri uomini lottare, uccidersi, farsi a pezzi per volere di quegli imperatori che divertivano le masse per distrarle da tutto il resto: dalle guerre, dalla povertà, dalle pestilenze, dai soprusi e dalla fame.

Pensai che dopo due millenni la storia non era affatto cambiata, che la gente la domenica andava allo stadio, annebbiandosi la testa di calcio, per non pensare a come fare per tirare a campare con stipendi da fame, per non pensare alle miserie quotidiane; pensavo ai nuovi imperatori, contenti che si parlasse di pallone e calciatori piuttosto che di tutto il resto, e di quanto niente venisse fatto dalla classe politica per migliorare la condizione della gente comune ... pensai di nuovo al padre di Piero e alla sua voglia di evasione dalla quotidianità ed anche a mio padre, così lontano da me e dai miei sogni eppure, lo stesso, affettuoso ed incredibilmente presente nella mia vita.


A fatica scacciai quei pensieri cercando di concentrarmi sul concerto che di lì a poco sarebbe iniziato. Tirai fuori lo striscione che pazientemente avevamo preparato trascurando la preparazione agli esami di maturità. Era bello e colorato e ingenuamente accostava i nostri nomi ai nomi dei membri della band, per l'occasione avevamo riesumato Syd Barret, il primo chitarrista, genio pazzo, del gruppo. In un piccolo articolo di un giornale locale, il giorno dopo, qualcuno raccontò di “un enorme striscione rosa-nero” che spiccava sotto l’enorme maiale (quello di pigs on the wing) che sorvolò le nostre teste.



Vidi Piero armeggiare freneticamente con cartine, tabacco e filtri. Quando finì, avvolto in una nuvola di fumo e tutto contento, disse:


“Ahó ragà, me stavo a fa’ er cannone, ma è cominciato er concerto?”


Ridemmo. In maniera diversa, però, da come eravamo abituati a fare. Non era un riso autentico, era indotto dal fumo, e avevo la sensazione che quello fosse il preludio al fumo, ben più pesante, che sentivo insinuarsi nella mia vita, in ogni mio pensiero, in ogni mio movimento.

Fumo sul nostro gruppo di amici, destinati a perdersi, intenti a percorrere ognuno la propria strada, per caso o per convinzione o perché senza scelta; fumo sui nostri sogni, inseguiti e mai raggiunti; fumo sulle nostre speranze di semplici ragazzi-uomini trascinati senza scampo dal turbinio dei percorsi della vita; fumo sui miei rapporti ancora non chiariti con il mondo e sulla distanza siderale che mi separava da Dio …

Non riuscivo nemmeno a spiegarmi perché la mia mente quel giorno di festa si ostinasse a partorire quei pensieri così cupi che a fatica poco prima ero riuscito a respingere. Forse la colpa era delle antiche e misteriose strade di Roma, forse del fumo che avevo respirato, che rallentava i miei gesti che sembravano lasciare scie, come soggetti di foto scattate in movimento, o forse, più semplicemente, la colpa era del mio carattere, già allora così difficile, introverso e facile alla malinconia …


Intanto sul palco, lì di fronte a me, dentro un cerchio di luce, Gilmour e la sua Stratocaster ...

Nell'aria le note allungate, dilatate, liquide di Shine on you crazy diamond!

Il fumo per un attimo sembrò diradarsi …

Il concerto era appena iniziato ...

Lo ascoltai in silenzio.


Copyright © 2019 Mauro Tavano

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