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La partita


C’eravamo dati appuntamento davanti ai capannoni abbandonati di quella vecchia fabbrica di mattonelle, dovevamo giocare la nostra personalissima finale di Coppa dei Campioni.

Era il 25 maggio 1983 e la vera finale, Juventus – Amburgo, si sarebbe giocata quella sera, quando finalmente i miei idoli avrebbero alzato al cielo il tanto agognato trofeo.

Dentro quei capannoni, io e i miei amici, avevamo lavorato duramente, spostato materiali, ripulito pavimenti, sgomberato ogni angolo e, sembra incredibile a credersi, eravamo riusciti a realizzare un campetto di calcio, dove prima laboriosi operai producevano piastrelle di ceramica. Ogni giorno, dalle quindici in poi, giocavamo anticipazioni di partite vere: era il nostro modo di sognare, il nostro modo ingenuo di essere altrove, il nostro modo di essere ragazzini di periferia, dove la città finiva e cominciava il mare.

Giocammo la partita tutto il pomeriggio, la nostra finale era stata vinta, giusto un’ora prima del calcio d’inizio di quella vera.

Mentre tornavo a casa vidi mio padre parlare fittamente con il vecchio Camarda, meglio conosciuto come il Professore.

Mi avvicinai mentre questi diceva quella frase che ancora oggi risuona perfettamente nella mia testa:

- Dotto’ venga oggi nella mia casa di Petranera, devo parlarle. E’ importante. -

Si girò e andò via. Io e papà restammo a guardarlo mentre camminava nella strada in discesa dove si trovava casa nostra. Il suo incedere incerto e dinoccolato lo faceva assomigliare più a un artista di strada, a un clown o a un giocoliere piuttosto che a uno stimato docente universitario.

– Il professore è molto ricco, soldi fatti illegalmente – dicevano alcuni, accumulati tra le lacrime e il sangue della gente cui ha prestato soldi facendosene restituire il doppio, alcune volte il triplo.

– Il professore è ricchissimo ma una brava persona – dicevano altri, un patrimonio accumulato in anni e anni di duro lavoro, senza mai una vacanza, aiutando spesso i bisognosi e curando la cara moglie malata.

Il professore lo si incontrava spesso, non aveva l’aria di una persona ricca, indossava sempre gli stessi vecchi abiti e portava una piccola coppola di panno nero.

Sembrava sempre di buon umore e non risparmiava mai sorrisi e saluti.

Mio padre decise di andare a Petranera, cosa aveva da dirgli di così importante quel vecchio professore? Io lo ricordo come un tipo simpatico, non credevo alle voci che in paese lo volevano ora usuraio ora massone ora, addirittura, mafioso. Lasciai andare da solo mio padre, non potevo perdermi la diretta di Juve – Amburgo, era la partita dell’anno, la aspettavo da una stagione.

- Professore! Professore! Si può? C’è qualcuno in casa? -

Non rispose nessuno e allora entrò spingendo la porta già aperta.

La casa del professore gli apparve in tutto il suo splendore, una specie di museo: mobili, candelabri d’argento e vasi corinzi, autentici; si perse lungo un surreale corridoio, pieno zeppo di preziosi quadri di autori famosi. Nella stanza accanto il Professore non poteva aspettare più nessuno, era morto.




La partita stava ormai per cominciare e Luca aveva già recitato un paio di volte la formazione come una poesia, come una preghiera:

Zoff – Gentile – Cabrini – Morini – Brio – Scirea – Bettega – Tardelli – Rossi – Platini – Boniek.

Non pensava più al professore ed alla sua strana richiesta, la sua testa ed il suo cuore erano ad Atene.

Nando Martellini, pacato come sempre, raccontava storie e aneddoti di ognuno degli eroi bianconeri. Molti di loro l’estate prima con la maglia azzurra avevano alzato al cielo la coppa del mondo e “Pablito” Rossi era stato l’eroe di Spagna.

Per un attimo si zittì anche lui quando l’arbitro fischiò il calcio d’inizio.




Papà non tornò a casa.

Lo torchiarono tutta la notte dentro la fatiscente caserma dei carabinieri. Il vecchio Camarda era stato ucciso e lui era accusato di omicidio.

- Gliel’ho già detto, io e il professore ci conoscevamo, mi aveva chiesto lui di andarlo a trovare e quando sono entrato l’ho trovato morto, sgozzato. Dopo ho chiamato subito il 112 e siete arrivati voi ... dopo un sacco di tempo se proprio devo dirla tutta … -

- E certo! Dopo un sacco di tempo! E che facciamo gli spiritosi Cristelli? Lo sa quante telefonate di finti omicidi riceviamo al giorno? E quanti siamo in questa minchia di caserma? Glielo dico io, pochi, pochissimi!

Ad ogni modo lei dice di essere entrato ma chi gliel’ha aperta quella minchia di porta se quello era già morto? -

- Ho trovato la porta aperta e sono entrato. -

- E poi? Che cosa ha visto dopo? -

- Ho visto un morto, porca miseria! Ho visto il professore in una pozza di sangue ... -

Mario Cristelli, mio padre, era un archeologo; esperto di arte greca ed in particolare di ceramografia corinzia. I suoi manuali, a distanza di tanti anni dalla loro pubblicazione, rappresentavano ancora una pietra miliare per studiosi di mezzo mondo. Forse aveva perso la testa per quei tesori custoditi abusivamente nella casa del vecchio professore e lo aveva ucciso per rubarglieli?




All’inizio del secondo tempo si era già capito che i tedeschi avrebbero portato a casa la coppa, Platini era ingabbiato e il Trap sostituì Rossi con Marocchino; l’attacco non funzionava, non potevano vincere.

Il cronista adesso era meno sicuro di prima, come se avesse già intuito che la serata sarebbe stata una di quelle sfortunate.

Possesso palla della Juve ma neanche un tiro in porta.




Ricordo quella serata come se fosse oggi, i miei pochi anni mi tenevano incollato davanti alla tv a vedere la partita senza curarmi troppo di quella tragica storia. Mio padre mai infierì per quella mia immaturità, ma s’incupì molto; non aveva ancora capito che, a dispetto del mio fisico da adulto, ero ancora un ragazzino, acerbo e poco avvezzo alle cose della vita.

Dopo indagini fin troppo celeri e superficiali Mario Cristelli, mio padre, venne incarcerato e da quel giorno cominciò il suo lungo e penoso calvario cercando di dimostrare la sua estraneità ai fatti. Gli inquirenti pensarono subito a lui come all’assassino del professore, lo descrissero nei resoconti come un banale collezionista di antichità pronto ad uccidere pur di possederli.

Mai, però, trovarono quei reperti, né a casa sua né altrove. Venne assolto definitivamente soltanto trenta anni dopo, quando era già morto da dieci. In Cassazione i Giudici, finalmente, lo scagionarono per mancanza di prove.

Io non seppi mai la verità, speravo con tutto il cuore che papà fosse davvero innocente ma non ebbi mai il coraggio di chiedergli come andarono davvero le cose e, soprattutto, non ebbi mai la possibilità di dimostrargli che non ero più il ragazzo superficiale di tanti anni prima e che il tempo, e certamente anche quella brutta storia, mi avevano profondamente cambiato.


E la partita? Cosa c’entra in questo racconto?

Beh, la partita, quella partita, è rimasta nei miei ricordi come il rumore di fondo, costante e insopportabile, di quella tragica nottata.

Ho immaginato mille volte una scena diversa, mio padre sereno accanto a me nel salotto di casa che mi dice:

- Resto a vedere la partita, non ho voglia di andare dal Professore. -

Ed io che mi giro a guardarlo, ancora incredulo per quel tiro impossibile di Magath e per la faccia di Zoff attonito mentre la palla gonfia la rete alle sue spalle.

- E’ soltanto il 10’ del primo tempo, possiamo ancora pareggiare papà! -

Perdemmo la partita …

E papà non c’era.


Copyright © 2013 Mauro Tavano

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